Una nuovo passo contro i tumori è stato avviato dai ricercatori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) e dell’Università Sapienza di Roma, attraverso la sperimentazione – recentemente avviata in vivo su pazienti oncologici – di una tecnica di chirurgia radioguidata con farmaci che emettono una radiazione beta.
La chirurgia radioguidata è un approccio che permette di identificare in tempo reale i residui tumorali. In particolare, la tecnica al vaglio dei ricercatori consente di rivelare, grazie a una sonda, la radiazione emessa da un radiofarmaco contenente una specifica molecola che viene riconosciuta e metabolizzata dai recettori delle cellule tumorali. In questo modo è possibile verificare direttamente, durante l’operazione, se i tessuti analizzati siano tumorali o meno, e quindi guidare il chirurgo sulle sedi da rimuovere.
La tecnica – nata da una collaborazione fortemente interdisciplinare tra fisici, chimici, radio-farmacisti, medici nucleari e chirurghi – potrebbe offrire al chirurgo oncologico uno strumento aggiuntivo durante la rimozione dei tumori.
“Essendo particelle cariche, gli elettroni di cui si compone la radiazione beta perdono velocemente la loro energia a seguito delle interazioni con le altre particelle cariche presenti in tutti i tessuti del corpo umano” – ha spiegato Riccardo Faccini, Professore del Dipartimento di Fisica della Sapienza e attualmente Preside della Facoltà di Scienze matematiche fisiche e naturali, tra gli inventori della tecnica. “Ciò determina l’impossibilità per gli elettroni di uscire dal paziente. Questa è la ragione che ci ha spinti a concepire uno strumento a cui i chirurghi avrebbero potuto far ricorso durante le operazioni, andando a posizionarlo direttamente sui tessuti da analizzare”.
Il progetto si basa su un’idea iniziale che prevedeva l’utilizzo di radiazione beta-: la procedura messa a punto – brevettata nel 2013 da Sapienza, INFN e Centro Fermi Museo della Scienza – si era rivelata efficace ma difficilmente applicabile per la scarsa reperibilità di radiofarmaci con questo tipo di emissione.
In base a studi successivamente condotti in collaborazione con l’Istituto Neurologico “Carlo Besta”, l’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), il Leiden University Medical Center e il Policlinico Universitario Fondazione Agostino Gemelli, i ricercatori hanno quindi optato per l’utilizzo della radiazione beta+, caratterizzata dall’emissione di un positrone, l’antiparticella dell’elettrone, e da due fotoni, usata quotidianamente nei reparti di medicina nucleare per gli esami diagnostici PET (Tomografia ad Emissione di Positroni).
“Mentre la radiazione beta-, alla luce delle sue caratteristiche, risulta poco adatta alle indagini diagnostiche – ha chiarito Francesco Collamati, ricercatore della sezione INFN di Roma, attuale Principal Investigator dello studio – i fotoni della radiazione beta+ sono in grado di attraversare senza ostacoli i tessuti del paziente, per essere infine rivelati da apparati diagnostici esterni. Da qui il diffuso utilizzo negli ospedali di farmaci beta+, che potranno quindi essere in parte utilizzati anche per la nostra tecnica.”
Nonostante questi vantaggi, i radiofarmaci con emissione beta+ presentano difficoltà legate all’abbondanza dei fotoni prodotti non solo nei tessuti malati, ma anche in tutte le aree del corpo raggiunte dalla molecola dopo la somministrazione, che possono disturbare i segnali rivelati dalla sonda. “Per questa ragione risulta necessario continuare a effettuare test che consentano di comprendere e calibrare il dispositivo e di fornire ai medici indicazioni, per esempio, sui livelli di conteggi associati all’effettiva presenza di un tumore”, ha concluso Collamati.
Le sperimentazioni attualmente in corso sono condotte – con il prototipo sviluppato da NUCLEOMED S.r.l. – presso lo IEO di Milano e l’Ospedale ‘Molinette della Città della Salute di Torino’, sia su sui tumori Neuro-Endocrini del tratto gastro-intestinale (GEP-NET) che su carcinomi prostatici.